Potrei raccontarvi una storia. Si sa che è il modo migliore per trasmettere ideali, per parlare di un problema, per descrivere situazioni altrimenti difficili da far comprendere. Ma di storie, a questo proposito, ne sono uscite già troppe fino a oggi: dalle fake news, dai giornali che non si sono resi conto di alimentare una follia, da una diffusione social che porta con sé il rischio di far nascere qualcosa di più grave e morboso del fatto stesso.
Parliamo del ‘Blue Whale‘, la trasposizione tecnologica di un disagio psicologico che sembra difficile da capire se non attraverso, appunto, il montaggio di una storia. Avrei potuto dire: parliamo del ‘Blue Whale’, il macabro gioco che… Però, no, di gioco non si tratta e la semantica è, in questi casi, fondamentale. Perché il pericolo è quello di togliere importanza e profondità a un concetto che merita, sì, approfondimenti e articoli, ma non di essere definito gioco.
Il Blue Whale nasce in Russia: è un meccanismo perverso, messo in atto da un uomo ora indagato, che tende a innescare negli adolescenti atti di autolesionismo e di suicidio. Il Blue Whale in Italia, in realtà, è partorito da un programma televisivo, Le Iene, che per la prima volta mette a corrente gli italiani su questa drammatica realtà.
Dopo la messa in onda della puntata, il Blue Whale ha creato il panico tra i genitori, tra gli adolescenti stessi, tra gli insegnanti, gli utenti dei Social, tra gli esperti del settore psicologico e psichiatrico. Un panico dovuto alla preoccupazione che i nostri ragazzi possano cadere della trappola mortale di questo meccanismo.
Quello che si dimentica di sottolineare, però, è che non è stato il Blue Whale a ‘inventare’ la pratica del cutting: l’autolesionismo sotto la forma di tagli autoinferti esiste da sempre. Si tratta di un disagio psicologico, vissuto da adolescenti e adulti, che si sviluppa anche in altri modi, meno o più violenti del cutting.
Così come il suicidio: non è stato certamente il Blue Whale a scoprirne l’esistenza. E la volontà di farsi filmare mentre ci si toglie la vita altro non è che la trasposizione informatica della lettera che generalmente un suicida lascia, dichiarando e spiegando le sue intenzioni.
Prima del Blue Whale, gli atti di autolesionismo erano già stati sdoganati da alcune figure: gli emo, ad esempio. Uno stile di vita a cui molti giovani si erano adattati, tra il 2000 e il 2007 circa, che prevedeva una forma di quotidianità incentrata sull’emozione, per lo più negativa, e che includeva alcune forme di autolesionismo tra cui principalmente il cutting. Furono anni, quelli, in cui spopolarono i primi blog, nei quali, appunto, si parlava spesso di pratiche di dolore auto inferto, semplicemente perché gli utenti iniziavano a creare community di supporto per superare determinati problemi di natura psicologica e sociale.
Dagli emo ai Forum, come successe con i fenomeni dei siti pro-anoressia, si è sempre cercato di dare un nome a quei disagi incomprensibili ai più: inaccettabile, infatti, che il proprio figlio o semplicemente la propria miglire amica coetaenea, senta la necessità di farsi del male. Quasi disumano, certamente incontrollabile e sicuramente preoccupante.
Il Blue Whale ha messo in atto lo stesso concetto: raccontare alla società un fenomeno da sempre esistente ma difficilmente comprensibile. Che siano stati gli adolescenti i maggiori utenti di questo fenomeno non è un caso, dato che, si sa, l’adolescenza è certamente uno dei periodi più difficile della vita di una persona; tanti, infatti, sono i disagi psicofisici che nascono nel periodo della crescita, tra cui, appunto l’autolesionismo e una possibile tendenza alla depressione.
Un adolescente, come sicuramente un bambino o un adulto, che soffre di un disagio psicologico non ha certamente bisogno di essere etichettato: non è un membro del gioco Blue Whale, non è un Emo mancato, non è un pazzo, non è un incosciente. E si sono susseguiti non poco i commenti e, soprattutto, i giudizi di chi – specialmente sui Social – ha descritto questi ragazzi come immaturi e incapaci di apprezzare la vita, togliendo loro ancor di più la possibilità di aprirsi al mondo in cerca di un aiuto. Ancora una volta il Web uccide, sì, ma con i suoi giudizi.
Il Blue Whale non è stata la necessità di un criminale né di quei ragazzi che hanno gridato al mondo, attraverso foto di tagli e video suicida, il loro malessere. È stata la necessità di tutti coloro che hanno bisogno di un capro espiatorio per non ammettere che il male di una società arriva da noi stessi, non solo dagli altri.
Un’ultima considerazione: i suicidi che pare derivino dal Blue Whale non arrivano a duecento.
I giornali che ne hanno parlato sono migliaia.
I post che si sono fatti su Facebook sono indecifrabili.
Le visualizzazioni fate dai programmi tv che hanno dedicato spazio all’argomento sono state infinite.
Chi è, alla luce di ciò, la vera vittima del Blue Whale?
